Viaggio in Ladakh (India himalayana)

Vai al racconto di viaggio

A Korzok c’è una piccola locanda. È una stanza quadrata, pitturata di verde e con un soffitto di tessuto. Sopra la cucina, un tempietto brilla alla luce di una candela che brucia sotto alla foto del Dalai Lama. La proprietaria, la mattina, si arrampica con una sedia per accenderla. È una signora della quale vedo solo il viso, gli occhi leggermente a mandorla, coperta da un lungo vestito ricamato a fiori, come il foulard che le copre i capelli. In genere se ne sta in un angolo dietro il bancone, dove ha anche tre fornelli rudimentali. Sotto alle pentole si allargano grandi fiamme che diffondono uno strano odore nell’aria. Lei, che stia impastando, cucinando, pulendo o scaldando l’acqua per il tè, canta. Melodie dolci, forse tibetane. È felice.
Il suo pranzo mi ha provocato la dissenteria, ma sono tornato per la colazione ed è diventato in fretta il mio posto preferito del villaggio. Mentre sorseggio il tè, entra una donna che tiene una mucca con una corda, poi un signore che passa lì davanti con i suoi cavalli. Sul lato opposto all’ingresso, una grande finestra si affaccia sullo Tso Moriri, il lago oltre il quale brillano le vette innevate dell’Himalaya. Lo specchio d’acqua, a quasi 5000 metri di quota, cambia colore come un camaleonte. Ieri era livido di pioggia, mentre la neve cadeva poco sopra e la gente, nonostante l’estate piena, passeggiava con i maglioni di lana. Oggi invece splende di un blu cristallino. Nei rari momenti in cui il vento si placa, invece, la superficie diventa perfettamente liscia e specchia il cielo puntellato di nuvole bianche.
“Nei vasti spazi vuoti delle montagne, c’è uno strano mercato dove si può barattare il vortice della vita mondana con una beatitudine illimitata”, ha detto una volta uno yogin. Korzok sembra essere uno di quei luoghi, dove il tempo si è fermato, immerso nella pace e nella tranquillità. La gente vive in modo semplice, onesto, aiutandosi gli uni con gli altri. La modernità è cosa ancora sconosciuta, l’autobus dalla capitale passa solo tre giorni al mese, sfidando una strada terribile e martoriata dalle frane.
Mi sono sistemato nell’unico hotel della città. Dalla finestra della mia camera ho una vista paradisiaca, sulle nuvole che corrono sul lago, i temporali che si lasciano alle spalle arcobaleni oppure le luci dorate del tramonto. Gli spifferi degli infissi sono così grandi che quando si abbatte il brutto tempo, oltre al vento, passa anche un po’ di pioggia. Qualcuno prima di me ha cercato di sigillare le fessure con del nastro adesivo. Ho fatto la doccia ed è scoppiato il tubo nel muro. La stanza si è allagata e l’acqua è penetrata nel circuito elettrico, così le luci hanno iniziato a sfrigolare e poi tutto l’albergo è rimasto al buio. Ma va bene così. In fondo, il villaggio non sembra avere alcun bisogno di rinnovamento. Se la vita è forse difficile e il clima ostile, la beatitudine è ovvia, lì davanti agli occhi.
Il Ladakh è fatto di questi luoghi, intrisi di pace. A volte toglie l’ossigeno, ti fa svegliare nella notte con il fiato corto e il cuore che batte veloce, ma ti imprime una serie di sensazioni, luci e colori che ti avvolgono come in un sogno. A certe altitudini, il photoshop è incluso nel paesaggio, e non serve chissà quale meditazione per immergersi nella sua atmosfera sospesa nello spazio e nel tempo. Basta sedersi e godere lo spettacolo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.